La nostra riflessione dopo la sentenza del TAR del Lazio

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La sentenza del TAR del Lazio impone ben più di un ricorso sui termini tecnici della questione. Dice bene il Consiglio di Presidenza di Assocounseling quando afferma: “Questa ennesima sfida che ci troviamo ad affrontare rappresenta da una parte la volontà di proseguire in un percorso di ammodernamento delle professioni iniziato nel 2013 con il varo della Legge 4 e dall’altra la tutela della libertà di tutti noi cittadini di poter scegliere consapevolmente il professionista a cui rivolgerci”.

La libertà del cittadino di scegliere l’intervento più adatto a promuovere la sua salute e a conservarla a fronte delle normali difficoltà dell’esistenza, è uno dei punti chiave del dibattito culturale che ci aspetta. Nella sentenza in questione si dichiara che: “Non può non convenirsi con i ricorrenti che la gradazione del disagio psichico presuppone una competenza diagnostica pacificamente non riconosciuta ai counselors e che il disagio psichico, anche fuori dai contesti clinici, rientra nelle competenze della professione sanitaria dello psicologo”.

Questo, a nostro avviso, è il presupposto da mettere in discussione sul versante culturale e politico. Qui è presente un circolo vizioso che ha delle conseguenze paradossali sia sulle professioni di aiuto non strettamente cliniche, che sulla libertà e sull’autonomia di scelta dei cittadini. Vediamo di portare in evidenza il cortocircuito e tentiamo di sbrogliare questa inquietante matassa.

Secondo l’affermazione poco sopra riportata il disagio psichico atterrebbe, “anche fuori dai contesti clinici”, alle sole figure sanitarie dello psicologo, dello psicoterapeuta e del medico psichiatra. Eppure – ed ecco il circolo vizioso – solo lo psicologo e le figure appena ricordate possederebbero le “competenze diagnostiche” necessarie per definire la gradazione del disagio in quanto tale.

Sorvolando sul rischio enorme di una medicalizzazione dell’intera società (ci chiediamo, infatti, se il dolore connaturato al semplice fatto di esistere, alle perdite normali della vita e allo smarrimento esistenziale, sia necessariamente rubricabile come “disagio psichico”) riteniamo che un nodo critico insito in questo ragionamento sia dato dal fatto che il soggetto è così forzato a conoscere se stesso e dare un nome alla propria sofferenza adottando esclusivamente il linguaggio – e la relativa visione del mondo – propri della psicodiagnostica scientificamente “validata”.

In altre parole: al cittadino viene impedito di riconoscere natura e qualità del proprio malessere, gli viene addirittura imposto di viversi secondo il discorso clinico-scientifico. Ciò vuol dire che un cittadino, che soffre per la perdita del coniuge e non si ritiene malato per questo ma solo bisognoso di un sostegno, di un accompagnamento esistenziale, non può decidere consapevolmente e volontariamente di lavorare con un counselor o con figure simili formate appositamente per agevolarlo.

Va detto, ovviamente, che ci è ben noto il fatto che ogni cultura umana ha i suoi criteri per comprendere e inquadrare le crisi della vita e il loro esitare in forme conclamate di malattia/psicopatologia. Il nervo scoperto su cui dobbiamo concentrarci è proprio questo: la battaglia di retroguardia che una parte degli psicologi sta conducendo oggi nei confronti dei counselor è, in prospettiva, un attacco pericoloso e generalizzato a tutte le forme di “cura dell’esistenza” che si muovono al crocevia tra educazione e formazione umana.

Fuori dai contesti clinici, piaccia o meno al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, esiste un epidemia diffusa di disagio che non è leggibile nell’alveo degli abituali criteri diagnostici. Il mondo che cambia, e non sempre in meglio, travolge le pretese di classificazione della sofferenza umana (sofferenza che, a volerla dire tutta, è impossibile da sradicare completamente e va piuttosto interrogata come occasione di crescita consapevole: lo spiegano con dovizia di particolari tutti i grandi cammini sapienziali dell’uomo, filosofici e spirituali).

Ciò non significa affatto che il lavoro scientifico sul disagio psichico non debba approfondirsi e nemmeno che i criteri diagnostici vadano abbandonati senza sapere ancora come sostituirli. Quello però che ci sembra fondamentale è che la persona sia tutelata nel suo diritto di comprendere il disagio che sperimenta, e che possa rivolgersi a professionisti diversi la cui formazione e preparazione siano impeccabili. In definitiva, e per calare queste osservazioni nell’ambito applicativo del counselor, un cliente/utente ha diritto nel firmare il suo consenso informato di scegliere esplicitamente un percorso di aiuto che non sia clinico, che non si avvalga di strumenti psicodiagnostici, e che lo lasci libero, sempre nel rispetto di un codice etico e deontologico rigoroso, di scoprire se stesso, di dare un nome al proprio disorientamento, di non finire – insomma – in una qualsiasi categoria astratta di esseri umani, in un cluster da cui seguono procedure standardizzate di “cura” che, non richieste, impongono con la scusa della scientificità una visione del mondo troppo ristretta, controproducente e, in definitiva, contraria alla responsabilità individuale.

Crediamo, in definitiva, che solo un ripensamento complessivo delle professioni di aiuto possa condurre a dei passi avanti, evitando assurde guerre intestine tra coloro che, a vario titolo, operano per aiutare le persone a difendere la loro salute e ad orientarsi nella vita. Un famoso psicoanalista (Luigi Zoja) ha ricordato che la guarigione, nell’ambito medico-sanitario, coincide tuttora con il ritorno dell’organismo a uno stato antecedente la malattia. I percorsi di formazione umana e di sostegno esistenziale a cui appartiene anche il counseling mirano piuttosto ad accompagnare il soggetto nella sua evoluzione personale.

La matrice psicologica di questi cammini, in fondo, non è diversa da quella onnipresente in tutte le professioni che hanno a che fare con la crescita degli esseri umani (l’insegnante, ad esempio, non interviene in qualche modo sulla psiche dei suoi allievi? E ancor più: come potrebbe essere un buon educatore senza “influenzare” in modo costruttivo i bambini/ragazzi?). E’ quindi capzioso estendere a ogni ambito sociale dove sia in gioco la crescita umana il primato esclusivo della psicologia come scienza esatta (fermo restando che la psicologia non è affatto tale, nonostante in Italia la legge 56/89 abbia insistito per esaltare la parentela del lavoro psicologico con quello medico-sanitario).

In conclusione ribadiamo che l’impegno delle Associazioni di categoria e delle Scuole di formazione al counseling deve essere quello di preoccuparsi della qualità dei percorsi formativi, della deontologia e dei valori guida per i futuri counselor. A questi doveri si aggiunge l’importanza di portare avanti un dibattito serio sui temi accennati, che sfoci nel tentativo di riformare profondamente il quadro delle professioni attive nel campo della relazione di aiuto.

 

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